Pagine: 194
     Prezzo: euro 16,00

Il paese dei suicidi
di YūMiri – Atmosphere edizioni

Dimenticate l’immagine edulcorata di un Giappone zen. Dimenticate le primavere tinte di rosa dai ciliegi in fiore, l’oro dei templi e le atmosfere oniriche alla Haruki Murakami. Qui si scava nel torbido, nei luoghi misteriosi e nascosti del dark web e nei recessi di esistenze giunte al limite.

Mone è una quindicenne di Tokyo che si trova ad affrontare il primo anno di scuole superiori con tutte le incertezze legate al periodo adolescenziale; oltre a sentirsi inadeguata nei confronti della sua famiglia, della quale sembra deludere le aspettative a causa del suo scarso profitto accademico, vive come un soffocante conflitto anche il rapporto con il suo gruppo di amiche, le “Sky Soda”, odiandole e al contempo temendo di perderle e di trovarsi a dover affrontare in totale isolamento gli ultimi anni di liceo. Mone finge allegria, mostra indifferenza e affronta passivamente la vita, così come il momento del passaggio dall’età infantile a quella adulta, provando un timore viscerale per un futuro ignoto e del quale si è creata nel tempo un’immagine stereotipata che ripudia; “cosa c’è di bello nel diventare grandi” se ciò significa divenire una moglie fedele, con un nugolo di figli, impegnata tutto il giorno nel proprio lavoro e costantemente perseguitata dal pensiero di come far funzionare al meglio il ménage famigliare? Per non perdere del tutto l’innocenza della fanciullezza, la giovane si rifugia in una cameretta piena di peluche, di orsacchiotti e di simboli di un passato del quale sente fortemente la mancanza, a causa anche della perdita dell’amata nonna, l’unica persona con la quale si fosse mai davvero trovata in sintonia. Misantropa e insofferente, perennemente in bilico tra eccitazione e depressione, Mone è la rappresentazione perfetta della solitudine individuale pur nella marea umana che popola le metropoli, una protagonista che indossa la maschera della semplice comparsa in un mondo di sconosciuti.

“C’erano tante cose che non voleva, ma neanche una che le sarebbe piaciuta fare”: una di queste, forse, era vivere. È con quest’idea che la ragazza si approccia a un forum online dal subdolo nome “Ricette per principianti”, dietro il quale si nasconde un covo per aspiranti suicidi nel quale trovare compagnia per compiere l’atto finale. Insomma, un luogo in cui organizzare appuntamenti non galanti ma fatali, incontri ravvicinati con la morte, gruppi i cui membri cercano un sostegno, nel bene e, soprattutto, nel male. Eppure talvolta succede che, cercando la fine, si trovi l’inizio, capendo oltre ogni orgoglio e testardaggine che “capita di non aver voglia di andare avanti, ma potrebbero arrivare dei momenti in cui vorrai farlo”. Al monossido di carbonio Mone preferisce quella composizione di ossigeno, azoto e anidride carbonica foriera di vita, l’aria fresca di una mattina di giugno.

“Il paese dei suicidi” è un romanzo estremamente contemporaneo per contenuto e per struttura, un’indagine sull’incomunicabilità inter e intra-generazionale che rispecchia in ogni dettaglio la biografia della sua autrice e le tematiche proprie della sua opera. Giapponese di origini sud-coreane, Yū Miri ha avuto un’infanzia travagliata, vivendo sulla propria pelle il pregiudizio e la discriminazione derivanti dal razzismo e il nazionalismo nipponico nei confronti di chi proviene dalla Corea. A causa dei rapporti tormentati sia con i genitori che con i compagni di scuola, la scrittrice tentò più volte il suicidio, afflitta da un senso di mancanza di appartenenza e di identità.

Questo senso di precarietà è proprio non solo della protagonista del romanzo ma, per traslato, anche del resto dei giovani giapponesi, costretti a vivere in una società fondata sul principio della competitività: chi non è all’altezza, semplicemente, deve considerarsi un escluso, mero oggetto di bullismo da parte dei coetanei. È evidente come un sistema del genere porti molti ragazzi alla depressione o, nel peggiore dei casi, a pensare al suicidio. Ecco spiegata la diffusione di forum a esso dedicati, fenomeno attraverso il quale l’autrice muove un’aspra critica al collettivismo imperante nel paese del Sol Levante, concetto in base al quale l’individuo non conta nulla se non inserito in un gruppo; gruppo alla ricerca del quale si va anche in previsione della propria morte volontaria.

Così come l’esistenza di Mone, spezzata e fatta di cocci da ricostruire, la scrittura di Yū Miri è frammentaria, ritraendo attimi, episodi e stralci di vita quotidiana volti a evidenziare la banalità ontologica della vita; frequenti sono le descrizioni di gesti e oggetti condotte nel minimo dettaglio, anche quello più insulso come il prezzo di un laccio per capelli o la routine di trucco della protagonista, descrizioni funzionali a far immedesimare maggiormente il lettore con la trama e la sua normalità. Un ulteriore elemento di realismo è rappresentato dalla presenza nella narrazione di diversi mezzi di comunicazione e delle loro modalità interattive. Mone ha un rapporto simbiotico con il suo telefono cellulare, quasi che esso sia un’estensione dei suoi sensi e del suo braccio, come sosterrebbe McLuhan: ecco che la scrittrice riporta fedelmente le dinamiche di dialogo poste in essere all’interno dei forum online, mettendo su pagina post e threaddi conversazione.

Moltissimi inoltre sono i riferimenti alla cultura pop contemporanea, tra cibi di moda tra i più giovani come i bastoncini di biscotto Pocky e girl band di successo, selfie e voglia di trasgressione, dai quali emerge l’immagine di un Giappone occidentalizzato della cui tradizione resta solo un ricordo. L’uso ricorrente delle onomatopee, infine, conferisce al romanzo un accento musicale e ritmico che scandisce non solo il tempo della protagonista ma anche quello del lettore.

Resta solo una riflessione:

“Dicono che siano le persone deboli a togliersi la vita. Significa che chi continua a vivere è forte? Che puoi diventare forte solo se non sei morto? Che da vivo puoi sempre migliorare? Cosa c’è di buono nel diventare forte? Cosa vuol dire? Io sono debole o forte?”

Khatarina von Arx

Scrittrice e giornalista svizzera, autrice di memoir e reportage dal forte mordente satirico. Pioniera al contempo del viaggio hippie anni Settanta e della leggerezza del turismo low cost, dopo il giro del mondo che la rese celebre parti` per l’Africa. Li` conobbe il fotografo Freddy Drilhon, assieme al quale costrui` l’amato «castello in aria sulla terra»: una dimora dove vivere e scrivere, la cui storia avrebbe poi raccontato in due romanzi biografici di notevole successo.