Termini e condizioni di vendita (agg.to del 14 maggio 2025)
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Atti umani
di Han Kang – Adelphi
Tra il 18 e il 27 maggio 1980 si consuma, a Gwangju una piccola cittadina non distante da Seoul, un massacro di civili, la maggior parte studenti, scesi in piazza per protestare contro la giunta militare di destra del presidente Chun Doo-Hwan che aveva preso il potere un anno prima.
In quei dieci giorni morirono più di mille persone, ma le cifre, come spesso avviene in queste casi, tendono al ribasso.
Fin qui la fredda cronaca dei fatti. Poi c’è il romanzo di Han Kang che da questi fatti parte per accompagnare il lettore in uno scavo senza posa nel dolore dei personaggi. La scrittrice sud coreana ci fa sentire il rumore della pallottola che penetra nella testa di un ragazzo di tredici anni, ci racconta delle torture inflitte ai prigionieri, ci fa annusare il fetore della decomposizione dei corpi senza vita accatastati uno sull’altro fino a diventare una massa indistinta di carne umana, ma dà anche voce all’anima di un ragazzo morto che rimane aggrappata al proprio corpo martoriato. La violenza, fisica o psicologica che sia, è presente in quasi tutte le pagine. Questo fa sì che “Atti umani” sia un romanzo disturbante, che ci scuote dall’interno, che ci fa sobbalzare e ci fa piangere. Soffriamo, dunque, leggendo queste pagine ma non possiamo far finta di non sapere che la violenza ha fatto parte, fa parte – anche in questo preciso istante in cui sto scrivendo queste poche righe seduto comodamente alla mia scrivania – e farà sempre parte della storia dell’essere umano. E’ dentro di noi, è intorno a noi, che ci piaccia o no, che lo si voglia o meno. Questo è quello che sembra volerci dire la scrittrice sud coreana e ce lo dice con una scrittura lirica ed evocativa, alternando la prima, la terza e anche la seconda persona singolare. Particolarmente coinvolgenti le parti in cui usa il “tu” dove la seconda persona si rivolge sì al protagonista di quella parte ma anche al lettore che, di fronte a quella chiamata, non può nascondersi, non può abbassare lo sguardo. Può solo immedisimarsi e interrogarsi.
I fatti sono narrati da un coro. Sette parti per sette personaggi che coprono un arco temporale che va dal 1980 al 2013 perchè le tragedie non si consumano nell’istante in cui avvengono, ma hanno delle ripercussioni su chi è sopravvissuto, su chi è stato solo testimone di questi orrori, come un veleno che si insinua in un corpo e piano piano intossica, corrode, uccide. Una volta superata la linea d’ombra che separa il bene dal male, nessuno può tornare indietro indenne.
Ho iniziato e terminato Atti umani il 1° gennaio. Quando ho letto l’ultima pagina, mi sono commosso (era molto tempo che non mi capitava con un libro) e, soprattutto, ho avuto la sensazione di aver iniziato il nuovo anno con una lettura che non mi lascerà più.
Cena per sei
di Lu Min – Orientalia editore
Cina, seconda metà degli anni ’90. Un quartiere industriale di una città non meglio precisata. Cammini in quella che viene definita “la zona industriale”, un ghetto in cui le fabbriche sono arroccate una sopra l’altra, le strade sono polverose e il tuo olfatto è aggredito dai fumi e dagli odori che escono dalle ciminiere e dai baracchini che vendono cibo di strada, odori tutti diversi ma tutti ugualmente nauseabondi. Mentre ti fai largo tra la folla, ti fermi davanti ad una delle tante case modeste con i tetti in lamiera arruginita in cui vivono gli operai. Con la mano cerchi di rimuovere una patina di polvere e grasso che si è depositata sul vetro. Avvicini il viso alla finestra e intravedi una cucina con un tavolo al centro e attorno al quale sono sedute sei persone: due adulti e quattro ragazzi. Una luce fioca illumina la tavola sulla quale sono disposte le pietanze. Tutto sembra immobile, tutto è avvolto nel silenzio. Gli sguardi sono fissi sul piatto e solo occasionalmente si alzano o si spostano lateralmente per incontrare quello del vicino.
“Gli stomaci al lavoro, il tavolo bisunto, il tintinnio delle bacchette sulle ciotole. Sembrava una scena trasmessa da un vecchio televisore a pochi pollici o I mangiatori di patate di Van Gogh”.
Ti chiedi chi siano quelle persone, cerchi di immaginare le loro storia. Sono una famiglia? Forse, ma dai loro sguardi non sembrerebbe. Magari vorrebbero esserlo ma c’è qualcosa tra di loro che li tiene a distanza, come se ci fosse a separarli un vetro talmente trasparente da non essere percipito dall’occhio dell’osservatore esterno ma solo dai loro di occhi.
“Era una situazione difficile, che non migliorava nonostante lo sforzo comune. Erano tutti tacitamente consapevoli della loro nuda solitudine…”
Indugi ancora qualche minuto davanti a quella finestra e ti immagini la loro storia, provi a fare conoscenza con queste persone. Inizi dalla donna alla tua destra, si chiama Su Qin ed è vedova da qualche anno a causa di un tumore che ha portato via suo marito. Così come è vedovo Bogang, operaio di basso livello in una di tante fabbriche della zona con il vizio del bere. I due si frequentano da un paio d’anni. Lei, ogni mercoledì, dopo cena esce di casa lasciando da soli i suoi due figli e inforca la bicicletta per passare la notte con lui. Prima dell’alba esce dal letto di Bogang, si riveste velocemente e rientra nel suo appartamento prima che i vicini la possano vedere. E’ una relazione fredda, distaccata soprattutto da parte di Su Quin la quale, in realtà, non si è ancora ripresa dalla morte del marito e probabilmente si vergogna un po’ di quella storia con un uomo così diverso.
Davanti a te, di schiena, il tuo sguardo si sofferma sui due figli di Su Qin. Il primo è Bai, il più piccolo di tutti. E’ un bambino sovrappeso con il doppio mento e gli occhi che paiono due fessure. Di tutte le persone che sono sedute a tavola è quella che vorrebbe più di ogni altra che quello strano groviglio di esistenze si trasformasse in una famiglia. Accanto a lui c’è sua sorella Lan, è più grande di qualche anno, è molto bella e soprattutto ha ben chiaro in mente che per poter fuggire dalla “zona” l’unica strada percorribile è quella dello studio. Poi ci sono i figli di Bogang: Chenggong, il primogenito. Il suo nome significa “successo” e, a tutti gli effetti, già dai primi anni di vita sembrava essere un bambino prodigio. “A un anno, era capace di contare, a due sapeva il pi greco a memoria e a tre le poesie Tang e a quattro leggeva i giornali…”. Le aspettative riposte dal padre nel figlio per un salto sociale della famiglia vengono meno nel momento in cui Chenggong non supera l’esame di ammissione all’università e si vede costretto a diventare anche lui operaio . E infine osservi Zjemsjem, la figlia minore di Bogang. Ha sempre la testa tra le nuvole ma cerca, a suo modo, di rendersi utile.
Ora che hai fatto conoscenza con i sei personaggi del romanzo di Lu Min non ti resta che osservarli mentre con le loro fragilità camminano, come acrobati, sulla corda tesa che unisce le ciminiere delle fabbriche della “zona” cercando di intravedere quello squarcio di cielo azzurro che a loro è sempre stato precluso.
Intorno a questi protagonisti ruota la storia raccontata da Lu Min, scrittrice cinese pluripremiata che arriva in Italia nella traduzione di Natalia F. Riva grazie a Orientalia. Una storia familiare ambientata in un contesto particolare come quello di un distretto industriale cinese che vive, negli anni ’90, la transizione verso il sistema capitalistico.
Vi ho raccontato la trama del romanzo in questo modo perchè volevo trasmettervi la sensazione che ho avuto costantemente mentre lo leggevo, ossia di essere a tavola con queste persone, di vivere con loro nella “zona”, di respirare gli stessi fumi nocivi delle ciminiere e provare il medesimo desiderio di fuga da quella realtà ma nello stesso tempo di desiderare che tutto rimanesse invariato perchè, in fondo, la zona “era il lievito in cui fermentavano le emozioni, il conservante e il pigmento che preservava il passato”.
Muschio bianco
di Anna Nerkagi – Utopia editore
Ho tra le mani “Muschio bianco” di Anna Nerkagi, la prima uscita del 2024 di Utopia editore. Osservo la copertina e rifletto sul fatto che la cura e la raffinatezza delle pubblicazioni della casa editrice milanese comincino proprio da lì, dalla cover che, questa volta, riproduce un’opera del pittore americano Franz Kline.
Leggo nel risvolto la “Lettera a uno sconosciuto” scritta da Gerardo Masuccio, editor e fondatore della casa editrice. Quella che dovrebbe essere una semplice sinossi del romanzo è una vera e propria missiva rivolta al lettore ignoto che, come me, si appresta alla lettura. È da qui che inizia il viaggio che mi condurrà nella penisola dello Jamal, Siberia nord occidentale, non molto distante dal Circolo Polare Artico. È a queste latitudini che vivono i nenek, una popolazione nomade la cui economia ruota tutta intorno all’allevamento delle renne. Durante il periodo sovietico i nenek hanno subito la collettivizzazione e la civilizzazione forzata: i bambini venivano separati dalle famiglie e mandati nelle grandi città dove erano costretti a parlare il russo e a dimenticare la loro lingua e le loro tradizioni. Anna Nerkagi, prima scrittrice nenek ad arrivare in Italia grazie alla traduzione di Nadia Cigognini, è stata una di quei bambini.
Se in “Aniko”- scritto nel 1974 e uscito, sempre per Utopia, nel 2022, l’autrice raccontava la storia di una ragazza che, dopo quattordici anni di lontananza e di assimilazione alla vita cittadina di una grande città come Mosca, viveva lo spaesamento del ritorno nella sua comunità per assistere il padre rimasto vedovo, in “Muschio bianco” ci troviamo di fronte ad una prospettiva rovesciata dove la protagonista è l’attesa. L’attesa di un padre (Petko) che, ormai anziano, aspetta il ritorno della figlia che tanto tempo prima aveva lasciato il clan e che da allora non aveva più dato notizie di sé preferendo le comodità della città e gli agi della vita moderna all’asprezza della tundra e a un’esistenza di sacrifici. Ma anche l’attesa di un giovane (Alëška) che di quella stessa ragazza è innamorato e che l’aveva vista partire mentre lui aveva scelto di rimanere accanto alla madre e ai suoi fratelli più piccoli.
Attese, dunque, che creano fratture nelle esistenze di padri e figli destinati a separarsi come lastre di ghiaccio alla deriva. Agli anziani, una volta rimasti soli, non rimane altro da fare che salire sulla slitta del tempo e percorrere l’ultimo sentiero, quello che conduce alla morte.
Ho tra le mani Muschio bianco di Anna Nerkagi, la prima uscita del 2024 di Utopia editore. Osservo la copertina e rifletto sul fatto che la cura e la raffinatezza delle pubblicazioni della casa editrice milanese comincino proprio da lì, dalla cover che, questa volta, riproduce un’opera del pittore americano Franz Kline.
Leggo nel risvolto la Lettera a uno sconosciuto scritta da Gerardo Masuccio, editor e fondatore della casa editrice. Quella che dovrebbe essere una semplice sinossi del romanzo è una vera e propria missiva rivolta al lettore ignoto che, come me, si appresta alla lettura. È da qui che inizia il viaggio che mi condurrà nella penisola dello Jamal, Siberia nord occidentale, non molto distante dal Circolo Polare Artico. È a queste latitudini che vivono i nenek, una popolazione nomade la cui economia ruota tutta intorno all’allevamento delle renne. Durante il periodo sovietico i nenek hanno subito la collettivizzazione e la civilizzazione forzata: i bambini venivano separati dalle famiglie e mandati nelle grandi città dove erano costretti a parlare il russo e a dimenticare la loro lingua e le loro tradizioni. Anna Nerkagi, prima scrittrice nenek ad arrivare in Italia grazie alla traduzione di Nadia Cigognini, è stata una di quei bambini.
Se in Aniko, scritto nel 1974 e uscito sempre per Utopia nel 2022, l’autrice raccontava la storia di una ragazza che, dopo quattordici anni di lontananza e di assimilazione alla vita cittadina di una grande città come Mosca, viveva lo spaesamento del ritorno nella sua comunità per assistere il padre rimasto vedovo, in Muschio bianco ci troviamo di fronte ad una prospettiva rovesciata dove la protagonista è l’attesa. L’attesa di un padre (Petko) che, ormai anziano, aspetta il ritorno della figlia che tanto tempo prima aveva lasciato il clan e che da allora non aveva più dato notizie di sé preferendo le comodità della città e gli agi della vita moderna all’asprezza della tundra e a un’esistenza di sacrifici. Ma anche l’attesa di un giovane (Alëška) che di quella stessa ragazza è innamorato e che l’aveva vista partire mentre lui aveva scelto di rimanere accanto alla madre e ai suoi fratelli più piccoli.
Attese, dunque, che creano fratture nelle esistenze di padri e figli destinati a separarsi come lastre di ghiaccio alla deriva. Agli anziani, una volta rimasti soli, non rimane altro da fare che salire sulla slitta del tempo e percorrere l’ultimo sentiero, quello che conduce alla morte.
Anna Nerkagi ci racconta tutto questo con una scrittura semplice, secca, liscia come il ghiaccio del Circolo Polare Artico, ma a tratti capace di riscaldare il cuore con immagini poetiche che sembrano prendere vita proprio da quel fuoco che riscalda i čum e di cui le donne nenek sono le vere padrone.
Muschio bianco è la trentacinquesima uscita in quattro anni di attività dell’editore. Se provo a scorrere i titoli che formano il suo catalogo, posso isolare due filoni. Quello dei recuperi di scrittori e scrittrici del XX secolo, a volte anche Premi Nobel, accantonati dal mondo dell’editoria a favore di titoli più commerciali e, quindi, più vendibili. Tra gli autori caduti nell’oblio e rivitalizzati da Utopia troviamo Massimo Bontempelli, Grazia Deledda, ma anche Camilo Joè Cela e Sigrid Undset, solo per citare i primi che mi vengono in mente.
L’altra strada percorsa porta a letterature di aree geografiche più periferiche, ma non per questo meno qualitative. Penso ad Hamid Ismailov scrittore uzbeko e al suo La fiaba nucleare dell’uomo bambino o a Ananda Devi scrittrice delle Isole Mauritius o a Punacci di Perumal Murugan scrittore tamil. Amo particolarmente queste storie perché sono storie che vengono da lontano, dai margini di questo piccolo mondo di cui tutti noi, lettori un po’ presuntuosi, ci consideriamo il centro. Margine è una parola che mi piace, ci sto bene dentro, è un altrove che vorrei fare mio. Mi fa pensare a qualcuno che è stato estromesso da qualcosa, oppure a qualcuno che ha preferito non far parte del centro per preservare la propria autenticità, a qualcuno che ha deciso di vivere in precario equilibrio ben sapendo che muovendo anche un passo soltanto oltre quel margine, smetterà di esistere, proprio come i nenek
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