Tre matti
autore: N. Gogol’, F. Dostoevskij, L. Tolstoj
editore: Marcos y Marcos
prezzo: euro 12,00
pagine: 154
data pubblicazione: 2014
Una raccolta pirotecnica, visionaria e, come da titolo, completamente folle, il cui minimo comune denominatore è rappresentato dall’assoluto anonimato dei protagonisti, uomini come tanti senza nulla di straordinario a parte, ovviamente, una mente del tutto peculiare. I nomi dei tre autori non devono spaventare e perentorio è evitare di approcciarsi alla lettura di questi tre testi con il timore reverenziale solitamente riservato alla grande, per mole e complessità, letteratura russa: un’immersione tra le pagine priva di pregiudizi e d’immotivata insicurezza vi renderà liberi di ridere, di riflettere e di empatizzare. In altre parole, liberi di essere umani.
Se il matto di Dostoevskij si perde in pensieri tra loro apparentemente scollegati e scevri di un qualsiasi nesso logico, chiedendosi di continuo quale sia il significato delle cose e dei fatti dell’esistenza e rispondendosi ogni volta “non lo so”, quello di Tolstoj è perseguitato da un senso di inquietudine e paura che scoprirà avere origine dalla sua stessa persona. Se il primo si identifica con la figura del sognatore, ben lontana dall’ideale romantico de “Le notti Bianche” ma più vicina alla dimensione della patologia, non riuscendo più a distinguere tra onirico e reale, il secondo è vittima di un contradditorio delirio religioso che, confondendogli e rimescolandogli senza sosta la mente, lo porterà a vivere un costante conflitto con se stesso.
Manca un matto all’appello, il mio preferito: quello immaginato da Gogol’, al quale l’autore demanda il ruolo di latore di considerazioni rasenti la denuncia sociale e politica rivolta alla contemporaneità. In un contesto a metà tra vaudeville e melodramma, l’impiegato protagonista del racconto si accorge di “sentire e vedere delle cose che nessuno aveva mai visto e sentito” già da un po’ di tempo; per citarne una, scopre di essere in grado di comprendere il linguaggio (umano) di Maggie, la cagnetta dell’amata Sophie, figlia del suo direttore di dipartimento, la quale scambierebbe anche una fitta corrispondenza con la migliore amica canina Fidele. Volendo avere maggiori notizie e informazioni relativamente all’oggetto del suo amore, l’uomo decide di impossessarsi di tali epistole, le quali risulteranno essere esilaranti, tra raffinate descrizioni di prelibatezze culinarie e analisi sdegnose della rozzezza umana. Ho riso, di gusto.
E se questo sarcasmo fosse in realtà una sottile metafora volta a punzecchiare i colleghi, intendendo che ormai possono parlare e scrivere liberamente “cani (letteralmente) e porci”? Lo stesso Gogol’ sembra suggerire un’interpretazione di questo tipo, facendo affermare al suo matto: “Era da un po’ che sospettavo che il cane fosse molto più intelligente dell’uomo… Il cane è un politico straordinario: nota tutto, vede tutti i passi dell’uomo”. Esilarante è inoltre il dialogo intrattenuto dal protagonista con se stesso, durante il quale si inalbera costantemente con la propria mente, colpevole di produrre pensieri impudici e inopportuni.
Per chiudere un crescendo di follia già prodigiosamente assurdo, il povero impiegato si convincerà di essere il nuovo re di Spagna Ferdinando VIII e, accompagnato dalla propria delegazione di corte, visiterà l’agognata Madrid, scoprendola molto diversa da come l’aveva sempre immaginata.